Antonio Grieco

PRECARIETA’ E INNOCENZA NELLA POESIA DI CIRO DE NOVELLIS
La mia prima impressione è che i versi de “Il senso dell’attesa” di Ciro De Novellis siano un incessante movimento alla ricerca di un legame tra il vivente umano e non umano. Lì c’è una parte di noi, quella parte nascosta del nostro io che si confonde nel divenire delle cose e del mondo e che spesso non riusciamo a riconoscere. Il senso di attesa è in quella labile linea di confine che separa l’essere dalla realtà che muore e rinasce fuori di noi. Voglio dire che il rapporto di empatia, consustanziale con la natura, che evocano i versi di De Novellis, in realtà, tende di esprimere – in modo talvolta sotterraneo e dissacrante – il totale smascheramento del soggetto; cerca l’essere, non la forma, il vuoto apparire. Per questo anche le fragili parole tremanti sono “come specchio di luna che si muove limpido nella discesa dei boschi degli Aurunci”.
Visibile e invisibile de Novellis li ha legati in questi versi in modo quasi segreto. Come in un mistero che vive di oscurità e di luce. E questo perché destrutturare la forma e la struttura linguistica per lui prima di essere un problema estetico è evidentemente un problema etico.
L’altro aspetto che mi preme sottolineare, anche questo per me fondante di questa poesia, è il legame con la memoria e il tempo. Alle volte il ricordo è struggente, e in questo quieto rimembrare si resta come sospesi; e diventa quasi un rifugio, un ritorno alla nostra alterità sfuggente, “struggersi per la malinconia del proprio tempo che non può tornare”. Non può tornare perché dietro di noi c’è solo il nulla. La inesistenza e fragilità della vita. “E allora non girarti tanto il mare ha cancellato tutto quello che avrai fatto pure l’ombra di te stesso non c’è più”
I versi de “Il senso dell’attesa” esprimono un dolore antico, una profonda inquietudine esistenziale. Riflettono uno spaesamento. Un vuoto. Qualcosa che abbiamo perso per sempre e che non ritorna. Ma soprattutto, io credo manifestino un forte senso di precarietà, d’incertezza, che riflette le angosce del nostro tempo a cui l’uomo del terzo millennio non è riuscito a dare alcuna risposta.
Anzi, nel mondo tutto è precipitato nel buio; tutto è diventato più greve, oscuro, orrido, e, come diceva un grande poeta della scena come Antonio Neiwiller, saremo costretti a comunicare tra le macerie. Questa sofferenza per l’orrore del nostro tempo, ritorna spesso in questi versi di De Novellis. Particolarmente mi hanno colpito quelli di Fuochi lontani, in cui è espresso tutto lo sdegno del poeta per la strage degli uomini costretti alla morte da una barbarie senza fine. “Avete fatto caso che nell’aria/ s’intrecciano parole con parole/Il vento/Le foglie/raccontano la strage della guerra/il sangue/lo zolfo/l’uranio impoverito/un buco nella maglia/la trama/l’ordito/il pianto di un bambino/. Parole che restano scolpite nella mente, che interrogano e ci interrogano. E gridano a tutti noi di ritornare umani.
Ha ragione Fagnano quando scrive che nei versi di Ciro De Novellis è la vita stessa che parla. Qui sta il senso del suo agire poetico che fonde appunto pensiero e vita. Uno specchio della vita che ha la stessa innocenza fragile del suo mondo interiore.
Antonio Grieco

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