PRELIMINARI

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PRELIMINARI

 

Vi sono momenti in cui ci sentiamo come trascinati da sensazioni che non si possono spiegare, condizioni indefinibili che passano per lo più inosservate; emozioni, percezioni temporanei, che lasciamo scorrere senza soffermarci a capirle, a chiederci il perché, e spesso alle domande diamo risposte formulate e non pensate.

Fu proprio in seguito ad una di queste emozioni, una vera coincidenza, che incominciai ad interessarmi a questa ricerca.

Mi ero recato al bosco di Capodimonte per una di quelle solite escursioni domenicali che hanno lo scopo di lasciare tranquille le donne in casa intente alle loro faccende. non era quella la prima volta che andavo al bosco con i miei figli, ma quel giorno decidemmo per un nuovo itinerario, e così scendemmo oltre l’Eremo, da Porta Bellaria, fino ad arrivare al muro di cinta verso Miano.

Risultò di grande effetto esplorare quella parte di bosco proprio perché più nascosta, più impervia, più misteriosa. Lì non arrivavano i viali asfaltati e gli alberi secolari mostravano le loro tortuose radici che si intrecciavano con rovi ed arbusti a coprire dirupi e scoscese in una fiabesca selvaggia natura. L’elce, la quercia, il castano, non erano apparecchiati come altrove, si ergevano, confusi e distorti, in una frenetica corsa verso il sole con l’edera ed il rovo che, nel cincerne i tronchi, disegnavano strane e minacciose geometrie nelle torve ombre del sottobosco.

Il piccolo sentiero che fiancheggiava il muro di cinta, a mano a mano si allargava, allontanandosi dai dirupi, fino ad arrivare nel fondo di una valle soleggiata.

Il biondo muro di tufo gradualmente si abbassava fino agli estremi di una radura pure agreste, ma molto diversa dalla macchia che ci eravamo lasciati alle spalle.

Anche i rumori si percepivano in modo diverso e il canto degli uccelli, non più echeggiante e misterioso, sembrava intonasse motivi di calma primaverile.

Dinanzi a noi il viadotto si incuneava di nuovo nel folto, in una ascesa più ripida della precedente, che si perdeva curvandosi a gomito nella vegetazione.

Oltre il muro un lagno abbastanza cospiquo di spuma e detriti, rumoreggiava nella sua ripida scesa e un fedito odore esalava di putrida fogna. nelle sue adiacenze il fragore del “sciummo” nefasto copriva lo stormire delle foglie degli alberi al vento ed il sole accarezzava la valle di tenero oblio.

Nessun altro rumore destava quell’ermo inviolato. Di là dal fiume una piccola chiesetta, in un basso recinto murario, biancheggiava sul fondo della verde collina che mi stava di fronte.

Ero lì, incapace di distogliere lo sguardo dalle scene del passato che rivedevo in una esaltazione catartica rigenerante. Ricordavo perfettamente quel luogo anche se non ne conoscevo il transito; ho sempre saputo che lì, in quella vallata, si svolgevano le più belle feste appartenenti alla tradizione popolare della mia gente, ma ho sempre creduto fossero scomparse le feste ed il luogo stesso delle rappresentazioni, magari coperto chissà da quale strada o da quale complesso edilizio.

Ricordavo pure di una statuina in pietra di un fanciullo con tré porcellini che però non vedevo sul muretto antistante la chiesa. Mi narravano, da piccolo, una leggenda secondo la quale il ragazzo rappresentato dalla statuina altro non era che un angelo e i porcellini, tre uomini blasfemi tramutati in bestie, ma altre leggende, come vedremo, sarebbero legate a quella statuina.

Come si potrebbe trasmettere, rendere palese, la sensazione di stupore e meraviglia che provavo nel contemplare quelle cose?

Quanti anni, quanti ricordi, e tutto era ancora lì, a pochi metri. Il torrente mi impediva di avvicinarle e allora proseguii per la strada in salita che intuii fosse più breve del percorso d’andata. Mi trovai ad attraversare per di sotto un ponte alto, che pure ricordavo altissimo, con degli archi sovrapposti di tufo giallo, e rividi pure la “grotta di Maria Cristina” che conoscevo perché pure apparteneva al mondo fantastico dei miei ricordi d’infanzia.

Ero ansioso di guadagnare in fretta l’uscita; bisognava raggiun-gere il cancello di Porta Bellaria, andare per Miano e di lì chiedere del Cavone o dell’Archetiello, se si chiamava ancora così.

Quella parte di bosco era la più impervia e maggiormente difficoltosa fu la strada del ritorno fino a quando raggiunsi la sommità del colle, verso il viale centrale, che tutto ammaestrato dall’uomo, sembrava destarmi da un sogno angoscioso di atavici gridi di morte. Ritrovavo, come rigenerato, forme più vive di interesse agli interrogativi….”Chi sì?”…”Che vuò?”…”Che faje ncoppe a sta terra?”…, che vanno al di là della ricerca egoistica delle cose perdute o della curiosità per le cose passate. Ritrovavo la razionale adesione al cammino dell’uomo che riflette con saggia calma quanto sia impervia la via del sapere, quanto sia irragiungibile il ritorno al passato se non affrontando gli ostacoli.

Ora in virtù di queste riflessioni e della premessa che ho già fatto, trovo superfluo ricordare che la divagazione descrittiva non ha lo scopo di romanzare il racconto, ma è il pretesto di una analisi dei motivi che mi hanno indotto alla ricerca che non siano la suggestione per il fiabesco o le strane coincidenze, che capitarono quando, ad esempio, arrivato che fui alla cappella di Maria SS. degli Angeli al Cavone, mi fu detto da un contadino che quello era il giorno della festa della Madonna. La chiesetta difatti era chiusa e l’icona era stata portata fuori in processione. Gli abitanti di Mianella erano stati costretti, in un vero esodo di massa, a lasciare il quartiere che doveva essere totalmente rifatto e ad occupare temporaneamente le cosìdette vele della centosessantasette di Secondigliano ed il Parroco di Mianella, per non far morire la tradizione, trasferiva ogni anno, nel giorno della festa, il Santo nel nuovo rione. Il contadino, mi disse pure che in pomeriggio il Santo sarebbe ritornato in chiesa con la processione dei fedeli e ci sarebbero stati fuochi e divertimenti vari per rendere omaggio alla Madonna.

Intanto rividi pure la statuina del pastorello coi porcellini diruti e spostati nelle adiacenze di una edicola votiva seminascosta da rovi e piante incolte.

Quale disegno del destino, quale coincidenza, mi volle trasportare in quel luogo, in quel particolare giorno, cui avvertivo inconsci desideri di identificazione, la necessità di trovare quel viatico mo= rale che spesso smarriamo nel groviglio delle incertezze che ci procura la nostra società per il modello di vita che ci propina. Era un rituale, forse, che mi voleva in un particolare momento richiamare alle origini attraverso la discesa nel bosco più profondo, sempre più giù in quella vallata, fino ad arrivare al cospetto del buio, nell’utero della terra per poi rigenerarmi a nuova vita come per un esorcismo destorificante il negativo: così direbbe Ernesto De Martino, che è sempre presente e ci risveglia le angosce ataviche della paura per il diluvio, per le incertezze, per l’indefinibile, per il misterico, per l’imprevisto, che ci sovrasta come una gigantesca cappa nella quale si può sempre aprire una falla, un buco nero nel quale sprofondare per sempre, inghiottiti dal nulla, o avvolti nel turbine di un uragano, di un maremoto, di un’eruzione. Del resto chi abbia letto “Sulle pietre spente” oppure “I laghi degli dei” del saggista puteolano Mario Sirpettino, saprà bene cosa vuol dire vivere costantemente nel pericolo, in una città che abbia il Vesuvio da una parte e i Campi Flegrei dall’altra.

Questo spazio di ricerche parte per essere piccolo, e si allarga, come vedremo, in un arco sempre più grande, grande come l’arcobaleno che rincorri perché sembra risolversi ai piedi di una montagna e lo ritrovi ancora dall’altra parte del tunnel e capisci allora che a raggiungerlo sarebbe come tentare di mordersi la coda ed allora ti fermi, e lo guardi, e lo definisci un arco di magia, un arco di luce che annuncia…Il giorno della Festa.

 

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